lunedì 14 settembre 2009

Tra Cinema e Storia :le recensioni di Effebi










Recensione del film :

Die Welle, di Dennis Gansel: lo tsunami in provetta




Die Welle è l’Onda, simbolo di devoluzione dell’anima adolescenziale che un gruppo di liceali affida al professore più accattivante, quello più capace di mettersi in gioco, l’animatore del dibattito politologico, l’allenatore di pallanuoto, il filtro tra la scuola pedante e un mondo giocherellone, annoiato, incerto sui valori, quando addirittura non sprovvisto.







È il gruppo di liceali che ha scelto di discutere in una settimana di full immersion col professor Rainer, la definizione di “autocrazia”. Il professore lancia la sfida del gioco-simulazione che comporta il ritorno di un rispetto astorico, almeno pre-sessantottesco, del rispondere “sissignore”, del dare del lei e non del tu come di norma. Quel gioco si trasforma, di giorno in giorno, in un ritorno al passato remoto, sempre meno ludico e sempre più coinvolgente fino al più pieno assorbimento dell’obbedienza al “professore-capo”, all’unione che perde l’individualità nell’identità di gruppo, al riconoscersi solo nei simboli dell’omogeneità, dalla camicia bianca per tutti, al saluto che simula l’onda. Il mito del gruppo Onda si fa valore supremo e prevede l’esclusione di chiunque rifiuti la liturgia e i simboli.

Il precedente vuoto di valori si riempie di un diverso nulla delle proclamazioni e della propaganda del simbolo di gruppo distribuito a macchia d’olio per la città e perfino apposto vistosamente sulla torre del Municipio. Quella dinamica di spossessamento della personalità travolge le coscienze degli attori, e perfino quella del professore, indotto a calarsi a fondo nella parte di fuhrer fino a perdere la stima della moglie, mentre il giovane studente che più gli è caro perde quella della ragazza. Quando il professore, tornato alla piena consapevolezza, tira il gioco all’estremo parossismo per far emergere il terribile errore che ha alimentato, gli studenti si sciolgono dall’ipnosi, ma il più disperato e sradicato, che ha trovato nell’Onda una speranza, reagisce in modo drammatico.

Che significato dare all’esperimento del Professore, al di là dell’evidente metafora della fascinazione nazista? Difficile vedervi il rispecchiamento di un’antica genesi, come accadeva nel romanzo All’Ovest niente di nuovo o nei film che ne furono tratti dove un professore nazionalista trascinava i suoi allievi nel furore patriottardo preparatorio del nazismo. Più facile vedervi l’esperimento di laboratorio che fa interagire alcuni elementi del fenomeno storico con le attitudini giovanili contemporanee per ottenere un’inconsapevole amalgama dietro simboli autoreferenziali e cattivi maestri. Racconto tedesco, dunque, di un fenomeno europeo, indicazione di pericolo sulla manipolazione delle coscienze, esperimento di devianza in equilibrio tra la metafora, la caricatura, il dramma. Scuola e adolescenti si fronteggiano e il professore è il cedevole punto di equilibrio in un sistema di cui il film nasconde ingranaggi fondamentali, dalla famiglia, rappresentata solo per assenza o per stravagante presenza, alla società civile, distratta spettatrice del sorgere in mezzo a lei di una sorta di “villaggio dei dannati”. Alla ragazza, invece, quasi solitaria protagonista di una ribellione morale, scrittrice di manifesti contro l’Onda, capace di riprendere il ragazzo “riprogrammato alla civiltà”, il meritorio ruolo di salvare i topolini del pifferaio di Hammerlin e il pifferaio stesso, che chiude il film camminando tra due poliziotti, meditando forse sul male dell’incoscienza pedagogica.




Effebi


Recensione del film :


Che prima parte, l’Argentino, di Steven Soderbergh: i due Guevara e l’unità di un mito

Con Che l’argentino si apre il dittico dedicato al mitico rivoluzionario che accompagnò Fidel Castro nella liberazione di Cuba. La continuazione, Che seconda parte, la guerriglia, arriverà a breve sugli schermi e completerà l’opera che racconta la storia attraverso la psicologia di un personaggio. Ne parleremo. Che potrà dire intanto il primo film alle giovani generazioni che del Che hanno un’immagine sfuocata? E che disse l’eco del Che alle generazioni contemporanee? Forse il film dirà agli uni che la rivoluzione è un’idea lontana, mentre l’eco disse ai secondi che era un’idea a portata di mano. Il film racconta la storia del movimento 26 luglio che, da un pugno di uomini, si fece strappo di un popolo contro una lunga colonizzazione. Vi confluiscono più racconti, quello di un’America latina permanentemente in cerca di sé, inquieta e instabile, quello di una lotta nata non come ideologica ma come ansia di libertà per approdare poi alla società socialista, e quello di un tempo del cambiamento che investì il mondo per un decennio.





Vi sono due Ernesto Guevara nel film. Uno è quello che parla, nel 1964, alle Nazioni Unite contro l’Imperialismo degli Usa e contro i loro alleati o asserviti e che racconta a una giornalista americana le ragioni della rivoluzione. L’altro è un Guevara più simile al suo interprete, Benicio del Toro, eroe dinoccolato del 1957-58, che porta il basco e il sigaro con estrema corrispondenza all’immagine condivisa del guerrigliero. Entrambi si ritrovano in un’immagine che si fece idea stessa della rivoluzione, sopravanzando quella del lento decadere del leader maximo verso la dittatura che in fondo fu l’alternativa più incisiva nell’immagine del movimento. Cosa incarnava il Che, se non la purezza disinteressata della rivoluzione a fronte del desiderio di potere che non risparmiò Fidel?

La pellicola però rappresenta la sintonia dei due rivoluzionari e il carisma di Fidel, politicamente e strategicamente più fecondo e abile, più machiavellico e intuitivo, più sottilmente capo, ma parla soprattutto dello spessore umano del Che, interpretato attraverso la convinzione nel principio di libertà e la pedagogia verso il popolo. Tutta l’epopea guerrigliera rappresentata dal film che ricostruisce il farsi della lotta al dittatore Batista, culminata nella vittoria del 30 dicembre 1958 a Santa Clara , rappresenta un grosso fatto di pedagogia sociale e rivoluzionaria. Non si prendono nelle fila della guerriglia uomini e donne disarmati o che non sappiano leggere e scrivere, e semmai si tengono durante i riposi nei nascondigli corsi di alfabetizzazione. Il Che è il maestro, il pedagogo, il medico che cura le ferite della battaglia e il male dei contadini, l’interprete di un’anima popolare che attende la catarsi della libertà e della riforma agraria e che si tuffa nella lotta. Lunghe marce, fatica, delusione, amore per l’umanità e per il vero, tentazione di fuga lontano dal fuoco, possibilità del tradimento, inesorabilità del castigo. Tutto questo attraversa il mondo che ruota intorno alla figura di Ernesto Guevara che della rivoluzione rappresenta l’ardore e la logica profonda, il principio per cui vince chi più è convinto della vittoria, perché sente giusto il motivo della sua lotta. Il Che è tanto essere umano, con la sua asma, con i suoi momenti di debolezza, quanto eroico combattente che ogni giorno di più apprende il significato di ciò che fa e lo rivela agli altri. In questo senso, appartiene alla storia delle rivoluzioni della sua terra, al sogno di libertà di Bolivar, a quel profondo senso dell’indipendenza che tanto contrastava con le ragioni del colonialismo vecchio e nuovo cui altri latino-americani vendettero la vita della loro gente. La memoria di Guevara ha resistito al tempo. Si compone di un messaggio e di simboli, identici tanto nella guerriglia che nella dialettica davanti all’ONU, segni riconoscibili di un’esistenza che per essere mito ebbe bisogno di vedersi riconosciuta nella sua autenticità.




( Film visto il 14 aprile 2009 al Cinema Nuovo di la Spezia )



Effebi

Recensione del film :
Che seconda parte, la guerriglia, di Steven Soderbergh: tre domande e una sola risposta

Il secondo film di Steven Soderbergh su Ernesto Guevara, Che la guerriglia, supera l’antinomia tra il ministro e il guerrigliero rappresentata nella prima parte alternando il colore e il bianco e nero. Il racconto salta i sette anni che separano la rivoluzione vincente di Cuba dal tentativo di esportare il movimento in Bolivia, prima tappa di una liberazione dell’America latina sognata dal Che e rimasta anche l’ultima. Qual è il tema storico del film? Sta in due domande: cosa separa il tormento del guerrigliero Guevara dalla assuefazione al potere del capo e amico Fidel? Cosa divide la rivoluzione vincente da quella che si esaurisce miseramente tra le balze della serra boliviana?

Il film sulla guerriglia accenna alle due cose un po’ timidamente e finisce per non dare completa risposta alle due domande, come se una riserva impedisse di andare a fondo della riflessione che deve pure esserci stata nella mente del protagonista. “Cuba progredisce” spiega il Che prigioniero al giovane soldato carceriere cui non manca il sentimento umano, ma non dice molto. Cuba progredisce, ma in quale direzione? Progredisce forse nella direzione sognata di una completa dignità della persona umana, di quella religione dell’uomo che il Che invoca come propria? O progredisce fornendo quei connotati di stato sociale e di soddisfazione dei bisogni della popolazione, dalla sanità all’istruzione, che una buona socialdemocrazia sa dare senza necessariamente coltivare un culto della personalità e senza imporre una dittatura? La risposta nel film manca. Neppure è intuibile, ed è una mancanza che si avverte perché forse nella mente del rivoluzionario che lasciò la poltrona di ministro e il potere politico ci fu la consapevolezza che quella di Cuba era stata rivoluzione a metà.

Quel silenzio fu il probabile frutto della sensibilità politica del Che che gli fece assumere su di sé la dimensione piena del rivoluzionario per non scatenare una battaglia politica che poteva vanificare la lotta compiuta. Tagliarsi i ponti alle spalle, dunque, come nella lettera indirizzata al leader maximo con la rinuncia ai gradi, alla carica di governo, al ruolo nel Comitato centrale del Partito, volgendo la prua verso la rivoluzione.

Con quella lettera comincia il racconto cinematografico, l’avventura in Bolivia del calvo signore anzianotto dietro le cui sembianze si nasconde la scavata immagine del rivoluzionario per riapparire pochi giorni dopo tra i boschi montani della Bolivia. L’immagine sofferta del Che-Benicio del Toro si ritrova nelle minuscole fila di un esercito sparuto e non in grado di svolgere davvero la sua battaglia. Ed è qui che si deve affrontare la seconda domanda sulla natura vincente di un processo rivoluzionario. Antica questione che non si limita alle vicende del Che, ma che coinvolge altri gloriosi personaggi, ad esempio il Carlo Pisacane di Sapri, tanto simile per l’isolamento dell’esercito guerrigliero dal mondo da liberare.

Il film mostra l’incompiuto tentativo di organizzare davvero un compatto esercito rivoluzionario che fondesse gli elementi cubani con i boliviani e si rivela invece una sorta di lunga fuga a tappe senza chiara meta tra le montagne, i boschi, le casupole sperdute di una popolazione contadina indifferente e spaventata. È questo il punto, la totale indifferenza di una popolazione secolarmente abituata alla sopravvivenza e incline a custodire la grama tranquillità dai guerriglieri, visti come un pericolo nonostante il rispetto, e dai soldati che le gesta rivoluzionarie portano a interferire con i loro ritmi di vita. In questo si misura la possibilità politica della rivoluzione, stando almeno alla materia del film, tra il primo e il secondo atto della drammatica storia rivoluzionaria del Che. Il primo è illuminato dalla sagacia militare e politica di Fidel Castro, il secondo è caratterizzato da un più confuso progetto del Che. E forse potevano non servire due film se la fine del secondo avesse aperto un flash-back contenente il primo. Ma ciò non toglie che il Che tratteggiato da Steven Soderbergh rimanga ancora valida icona di un pensiero che attraversò la cultura di tanti giovani che il 10 ottobre del 1967 seppero della morte del guerrigliero. S’incise allora in molte coscienze l’immagine che il cambiamento politico esigesse la testimonianza personale e rivissero allora le memorie dei tanti martiri di esperienze magari strategicamente sbagliate, ma valide eticamente. E ciò muove una terza domanda: per quella generazione ormai incanutita quanto di quell’immagine resta dopo i decenni vincenti di una politica che dell’etica non ha fatto il suo primo valore?

( Film visto il 3 maggio 2009 al cinema Flora di Firenze )

Effebi



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Scheda del film :Die Welle , di Dennis Gansel



Die Welle, Germania 2008, 107', regia: Denis Gansel, sceneggiatura: Denis Gansel e Peter Thorwarth, produzione: Christian Becker, Nina Maag, Anita Schneider; musica: Heiko Maile; fotografia: Torsten Breuer; montaggio: Ueli Christen; interpreti: Jürgen Vogel: Rainer Wenger; Frederick Lau: Tim; Max Riemelt: Marco; Jennifer Ulrich: Karo;Christiane Paul: Anke Wenger; Elyas M’Barek: Sinan; Cristina do Rego: Lisa; Jacob Matschenz: Dennis; Maximilian Vollmar: Bomber; Maximilian Mauff: Kevin; Ferdinand Schmidt-Modrow: Ferdi; Tim Oliver Schultz: Jens; Amelie Kiefer: Mona; Odine Johne: Maja; Fabian Preger: Kaschi; Alexander Held: Tims Vater


Il film di Dennis Gansel, Die Welle (L’onda), vincitore come miglior sceneggiatura al ventiseiesimo Torino Film Festival, trae ispirazione da avvenimenti accaduti nella classe di storia di una scuola di Palo Alto in California, la Cubberley High School, dove il prof. Ron Jones, nell’aprile 1967, ha tentato l’esperimento didattico di fare provare alla propria classe il totalitarismo invece di spiegarglielo.

Da questa esperienza lo scrittore americano Todd Strasser ha tratto nel 1981 il libro The Whave , da cui Dennis Gansel e Peter Thorwarth hanno ricavato la sceneggiatura per Die Welle.

La redazione

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Scheda del film :CHE-L'ARGENTINO


Regia: Steven Soderbergh

Attori: Benicio Del Toro, Demian Bichir, Santiago Cabrera, Elvira Mínguez, Jorge Perugorría, Edgar Ramirez, Victor Rasuk, Armando Riesco, Catalina Sandino Moreno, Rodrigo Santoro, Unax Ugalde, Yul Vázquez, Carlos Bardem, Joaquim de Almeida, Eduard Fernández

L'argentino è il primo episodio della pellicola realizzata dal regista americano Steven Soderbergh sulla storia di Ernesto Guevara. Il film racconta la storia di Guevara ai tempi della rivoluzione cubana dei barbudos guidati da Fidel Castro

La redazione

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Scheda del film :CHE- GUERRIGLIA

Regia : Steven Soderbergh

con Benicio Del Toro, Yul Vazquez, Franka Potente, Demián Bichir, Rodrigo Santoro, Catalina Sandino Moreno, Norman Santiago, Othello Rensoli, Jorge Perugorría, Néstor Rodulfo. Prodotto in Francia, Spagna, USA. Durata: 131 minuti. Distribuito in Italia da Bim

Guerrilla, è il secondo episodio della pellicola realizzata dal regista americano Steven Soderbergh sulla storia di Ernesto Guevara.
Dopo la rivoluzione cubana, il Che è all'apice della sua fama e del suo potere. Poi improvvisamente sparisce, e ricompare in incognito in Bolivia, dove organizza un piccolo gruppo di compagni cubani e reclute boliviane destinati a dare inizio alla grande rivoluzione latino-americana.

La redazione

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UN AMICO DI FAMIGLIA : il prof. Fabio Bertini

Fabio Bertini è prima di tutto Fabio , un amico della pubertà, un vate della poesia giovanile che forma lo spirito adolescenziale predisponendolo alla acuta sensibilità che potrà , in epoche successive ,trovare i giusti approdi.

Ricordo e conservo gelosamente alcuni suoi pensieri tradotti in poesie raccolte in un libretto intitolato " La cittadella dei bottoni " ( poesie dal 1963 al 1969) dove, tra l’altro , pochi versi ( La noia in giardino ) immortalano il desiderio di analizzare fino in fondo il proprio io partendo dal semplice contesto ambientale, il minuscolo giardino di Casa Guidi.

Oggi è un professore universitario , uno studioso di storia di livello internazionale che mi ha inviato, in seguito ad una mia sollecitazione , uno scritto che vado a pubblicare con gioia nella pagina dedicata agli artisti di Casa Guidi.



Perché lui ne ha diritto ed è per me un grande onore.


Mauro Guidi



Dedicato a Ugo Canessa che mi chiese una "memoria" livornese.




Nell’affollarsi di memorie di una carriera scolastica talmente lontana da appartenere a decenni fa, i primi spezzoni si svolgono lungo la via che portava dal Voltone al Fosso del Mercato, alle Benci. Le Benci riemergono più attraverso le cose che attraverso le persone. Le maestre e i maestri sono figure sfumate, per l’averne cambiati diversi, salvo qualche immagine persistente, il direttore Corsi, elegante con baffi che richiamavano quelli di mio padre, ma un po’distante, il maestro Orsini, di quinta, che metteva un po’ soggezione. Restano di più a mente le cose, il grande ingresso, dove ricordo ammucchiati i sacchi della roba che portammo per l’alluvione del Polesine, e dove vedemmo una proiezione di Cielo sulla palude, di Genina, proiettato a noi forse perché percepissimo elementi di una moralità di cui non poteva che sfuggirci il senso. E ancora il vaccino contro la tubercolosi, in una stanzetta che non saprei certamente ritrovare della scuola, un pennino dell’antitubercolare graffiante la spalla, e la gita, in una mattina di sole, verso il viale Italia, per la festa degli alberi, in fila, con altre scolaresche, a piantare qualcosa (un seme? un alberello?), senza comprendere il senso di quell’operazione.

Per capire di più, dovevo andare oltre quella scuola, e raggiungere le Marradi, la scuola media di cui mi colpiva l’immagine di quel partigiano, di quei nomi, della scritta "Salvaste l’Italia, non morrete mai". Era più facile cominciare a capire e ricordare, questa volta, più le persone che le cose, ricordare Marta Bassano, quella piccola, impettita, rigorosa, sferzante e incalzante, carissima, indimenticabile professoressa di Lettere. Incalzante sul latino, sui verbi, sulla grammatica, sul gusto delle etimologie, sul perché di ogni cosa e sul senso dell’impegno come una vestale del dovere, ma di un dovere pieno di senso. Proiettata a creare in noi, poveri di sostanze e di cultura, l’idea che lottando con noi stessi per sapere, per riuscire a dominare la lingua, a scrivere e a lavorare di cervello, compivamo insieme un dovere e un diritto.

E che questo fosse il suo intento, allora, si poteva capirlo subito, perché ogni lettura, le poesie imparate a memoria, i grandi poemi, spiegati puntigliosamente e con grande chiarezza, erano esercizi di vita e di temperamento alla vita. Come se vivere la quotidianità della scuola, con lei, fosse continuo inerpicarsi. Così, la battaglia epica tra Achille ed Ettore, il conflitto di Ulisse con Polifemo, era lo scontro di idealità e consapevolezza delle possibilità umane, e la cultura classica presentimento e discussione dei valori con cui ci saremmo dovuti misurare. Ebrea e italiana, orgogliosa di entrambe le cose, portava dentro un senso forte della tolleranza che esprimeva simbolicamente e direttamente, nella percezione drammatica della storia che si faceva presente e motivo di dialogo, nel suo rispetto per le cose di tutte le culture religiose. Non potevamo saperlo, ma portava dentro la grande lezione della cultura livornese.

Per questo ci mandò a raccogliere e tradurre lapidi ai cimiteri sulla via della Rosa, perché facessimo esercitazione di latino e intanto cogliessimo il senso di quei messaggi affidati al compianto. Per questo ci mandò a vivere la festa del 2 novembre alle tombe garibaldine dei Lupi, perché ci innamorassimo del Risorgimento. Per questo volle che imparassimo a mente l’Inno di Mameli e lo sapessimo interpretare drammaticamente senza concedere spazio ai risolini ed alla voglia di scherzare anche su quello che non ci mancava certo. Per questo faceva sì che fosse tanto difficile sottrarsi a quel continuo lavoro che ci proponeva, insieme a lei o a casa, e nell’osservazione della città.

Per questo ci dette una grande lezione di coraggio che, in lei, cultrice delle lettere classiche, rivelava la grande partecipazione al presente che costituiva la lezione più preziosa.

Accadde quando la cagnetta Laika volò nello spazio, primo essere vivente che travalicasse l’atmosfera, su uno Sputnik. Quella donna bassa, nel suo grembiule nero, che i più alti di noi stavano scavalcando, venne a scuola con una foto di Laika, ricavata – penso – da un giornale e incorniciata. L’affisse al muro e ci spiegò perché lo faceva, persuasa che in quell’occasione si stesse svolgendo una grande svolta della storia.

Tornando la mattina dopo scoprì che la foto non c’era più e seppe che l’aveva fatta togliere il preside, Lorenzo Conti, preoccupato che si potesse cogliere in quell’affissione un gesto politico. Ma non era così, era un gesto di fiducia nella scienza e nell’umanità ed era soprattutto, per Marta Bassano, un gesto di coinvolgimento e di riflessione su cui far misurare i suoi allievi. Su questo avvenne lo scontro tra quei due, il Preside e la Professoressa, ma non nel chiuso della Presidenza. Avvenne davanti a noi, perché, per la Professoressa di Italiano e Latino, non c’era altra sede per confrontarsi. Da una parte Lei, irremovibile e impettita, dall’altra lui, altrettanto bassino, sudato, che cercava di spiegare e spiegare, con crescente difficoltà.

Vinse naturalmente lei, che mantenne il quadretto attaccato e che aveva ancora volta fatto lezione. Questa volta, non tra passato e presente, ma tra presente e futuro. Quello che aveva teorizzato tante volte, parlando di coraggio civile e di dovere, l’aveva dimostrato ancora una volta ed era una lezione indimenticabile.




Fabio Bertini

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UN AMICO DI FAMIGLIA : il prof. Fabio Bertini

Fabio Bertini è prima di tutto Fabio , un amico della pubertà, un vate della poesia giovanile che forma lo spirito adolescenziale predisponendolo alla acuta sensibilità che potrà , in epoche successive ,trovare i giusti approdi.

Ricordo e conservo gelosamente alcuni suoi pensieri tradotti in poesie raccolte in un libretto intitolato " La cittadella dei bottoni " ( poesie dal 1963 al 1969) dove, tra l’altro , pochi versi ( La noia in giardino ) immortalano il desiderio di analizzare fino in fondo il proprio io partendo dal semplice contesto ambientale, il minuscolo giardino di Casa Guidi.

Oggi è un professore universitario , uno studioso di storia di livello internazionale che mi ha inviato, in seguito ad una mia sollecitazione , uno scritto che vado a pubblicare con gioia nella pagina dedicata agli artisti di Casa Guidi.



Perché lui ne ha diritto ed è per me un grande onore.


Mauro Guidi



Dedicato a Ugo Canessa che mi chiese una "memoria" livornese.




Nell’affollarsi di memorie di una carriera scolastica talmente lontana da appartenere a decenni fa, i primi spezzoni si svolgono lungo la via che portava dal Voltone al Fosso del Mercato, alle Benci. Le Benci riemergono più attraverso le cose che attraverso le persone. Le maestre e i maestri sono figure sfumate, per l’averne cambiati diversi, salvo qualche immagine persistente, il direttore Corsi, elegante con baffi che richiamavano quelli di mio padre, ma un po’distante, il maestro Orsini, di quinta, che metteva un po’ soggezione. Restano di più a mente le cose, il grande ingresso, dove ricordo ammucchiati i sacchi della roba che portammo per l’alluvione del Polesine, e dove vedemmo una proiezione di Cielo sulla palude, di Genina, proiettato a noi forse perché percepissimo elementi di una moralità di cui non poteva che sfuggirci il senso. E ancora il vaccino contro la tubercolosi, in una stanzetta che non saprei certamente ritrovare della scuola, un pennino dell’antitubercolare graffiante la spalla, e la gita, in una mattina di sole, verso il viale Italia, per la festa degli alberi, in fila, con altre scolaresche, a piantare qualcosa (un seme? un alberello?), senza comprendere il senso di quell’operazione.

Per capire di più, dovevo andare oltre quella scuola, e raggiungere le Marradi, la scuola media di cui mi colpiva l’immagine di quel partigiano, di quei nomi, della scritta "Salvaste l’Italia, non morrete mai". Era più facile cominciare a capire e ricordare, questa volta, più le persone che le cose, ricordare Marta Bassano, quella piccola, impettita, rigorosa, sferzante e incalzante, carissima, indimenticabile professoressa di Lettere. Incalzante sul latino, sui verbi, sulla grammatica, sul gusto delle etimologie, sul perché di ogni cosa e sul senso dell’impegno come una vestale del dovere, ma di un dovere pieno di senso. Proiettata a creare in noi, poveri di sostanze e di cultura, l’idea che lottando con noi stessi per sapere, per riuscire a dominare la lingua, a scrivere e a lavorare di cervello, compivamo insieme un dovere e un diritto.

E che questo fosse il suo intento, allora, si poteva capirlo subito, perché ogni lettura, le poesie imparate a memoria, i grandi poemi, spiegati puntigliosamente e con grande chiarezza, erano esercizi di vita e di temperamento alla vita. Come se vivere la quotidianità della scuola, con lei, fosse continuo inerpicarsi. Così, la battaglia epica tra Achille ed Ettore, il conflitto di Ulisse con Polifemo, era lo scontro di idealità e consapevolezza delle possibilità umane, e la cultura classica presentimento e discussione dei valori con cui ci saremmo dovuti misurare. Ebrea e italiana, orgogliosa di entrambe le cose, portava dentro un senso forte della tolleranza che esprimeva simbolicamente e direttamente, nella percezione drammatica della storia che si faceva presente e motivo di dialogo, nel suo rispetto per le cose di tutte le culture religiose. Non potevamo saperlo, ma portava dentro la grande lezione della cultura livornese.

Per questo ci mandò a raccogliere e tradurre lapidi ai cimiteri sulla via della Rosa, perché facessimo esercitazione di latino e intanto cogliessimo il senso di quei messaggi affidati al compianto. Per questo ci mandò a vivere la festa del 2 novembre alle tombe garibaldine dei Lupi, perché ci innamorassimo del Risorgimento. Per questo volle che imparassimo a mente l’Inno di Mameli e lo sapessimo interpretare drammaticamente senza concedere spazio ai risolini ed alla voglia di scherzare anche su quello che non ci mancava certo. Per questo faceva sì che fosse tanto difficile sottrarsi a quel continuo lavoro che ci proponeva, insieme a lei o a casa, e nell’osservazione della città.

Per questo ci dette una grande lezione di coraggio che, in lei, cultrice delle lettere classiche, rivelava la grande partecipazione al presente che costituiva la lezione più preziosa.

Accadde quando la cagnetta Laika volò nello spazio, primo essere vivente che travalicasse l’atmosfera, su uno Sputnik. Quella donna bassa, nel suo grembiule nero, che i più alti di noi stavano scavalcando, venne a scuola con una foto di Laika, ricavata – penso – da un giornale e incorniciata. L’affisse al muro e ci spiegò perché lo faceva, persuasa che in quell’occasione si stesse svolgendo una grande svolta della storia.

Tornando la mattina dopo scoprì che la foto non c’era più e seppe che l’aveva fatta togliere il preside, Lorenzo Conti, preoccupato che si potesse cogliere in quell’affissione un gesto politico. Ma non era così, era un gesto di fiducia nella scienza e nell’umanità ed era soprattutto, per Marta Bassano, un gesto di coinvolgimento e di riflessione su cui far misurare i suoi allievi. Su questo avvenne lo scontro tra quei due, il Preside e la Professoressa, ma non nel chiuso della Presidenza. Avvenne davanti a noi, perché, per la Professoressa di Italiano e Latino, non c’era altra sede per confrontarsi. Da una parte Lei, irremovibile e impettita, dall’altra lui, altrettanto bassino, sudato, che cercava di spiegare e spiegare, con crescente difficoltà.

Vinse naturalmente lei, che mantenne il quadretto attaccato e che aveva ancora volta fatto lezione. Questa volta, non tra passato e presente, ma tra presente e futuro. Quello che aveva teorizzato tante volte, parlando di coraggio civile e di dovere, l’aveva dimostrato ancora una volta ed era una lezione indimenticabile.




Fabio Bertini

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